Femminista e scrittrice, Rebecca Walker è nata nel Mississippi 39 anni fa. Definita una delle cinquanta future leader dell’America, Rebecca ha avuto nella vita un incontro con il re del Pop Michael Jackson, e con le sue fragilità .
Ho conosciuto Michael Jackson nel 1984. Eravamo entrambi ospiti di Quincy Jones e Steven Spielberg ad Amblin, la società di produzione di Steven presso gli studi cinematografici della Universal. L’attrice Whoopi Goldberg si stava preparando a interpretare il ruolo di Celie, la protagonista del film Il colore viola, tratto dal libro di mia madre, e su richiesta di Steven intratteneva gli ospiti con un suo spettacolo. Michael ed io eravamo seduti in prima fila. Lui indossava la sua ormai leggendaria giacca rossa con le spallette e i cordoni dorati sul petto, pantaloni neri attillati, calzini bianchi, scarpe nere e — sì, è vero — un solo guanto. Non saprò mai perché Michael, in una sala stracolma di celebrità , si avvicinò proprio a me, subito dopo lo spettacolo. Forse perché ero l’ospite più giovane, soli 14 anni, una ragazzina tranquilla con poche ambizioni. Non ero ancora abbastanza grande e con me non doveva dimostrare di essere chissà chi. Forse Michael si rendeva conto che in mia compagnia poteva sentirsi, in un certo senso, completamente libero. Ricordo l’effetto che mi fece vederlo avvicinarsi. Si muoveva lentamente, come un ragazzo «fichissimo», un po’ esitante ma sicuro del fatto suo.
La prima impressione su Michael?
Era come si descrisse egli stesso nell’omonimo album qualche anno più tardi, intoccabile. E alla fine penso che sia stato proprio questo ad ucciderlo. Un essere umano non può sopravvivere a lungo senza il contatto dell’altro, non può respirare aria artificiale per troppi anni. Ci restano la musica, i ricordi e la vergogna del nostro voyeurismo narcisistico. Come per tanti fan, anche per me la musica di Michael è stata la colonna sonora della vita, un influsso potente che mi ha aiutato a plasmare la mia identità . Ma poi il suo naso si assottigliò forse un po’ troppo e la sua pelle sempre più sbiancata divenne difficile da accettare. Cominciarono a emergere le querele, una dopo l’altra, e poi i processi, e le facce dei ragazzini che raccontavano tristi storie di molestie. Io restavo impietrita davanti alla televisione e navigavo in Internet a caccia di notizie scandalose. Guardavo, deploravo, giudicavo e tentavo con tutte le mie forze di restare aggrappata all’immagine pulita dell’uomo che avevo conosciuto. Ma la sua sorte era segnata. La vita di Michael era già diventata un gigantesco puzzle psicologico.
Fino alla triste fine.
Non dimenticherò mai il momento in cui ho saputo della sua morte. Michael Jackson, morto? continuavo a chiedere a mio marito. Una parte di me era morta con lui. Quella parte che sperava sempre che Michael potesse continuare a portare il tremendo fardello che lo opprimeva, che mi opprimeva. Quella parte di me che custodiva il ricordo della sua preziosa innocenza, della mia preziosa innocenza.