Miss Internet 2013: conosciamo Sarinski

sara puccinelli

Quando l’autoironia diventa un’arma di seduzione… Questo è il caso specifico di Sara Puccinelli, conosciuta sul web come Sarinski. Una biondina amante del sarcasmo che ha fatto innamorare di se migliaia di utenti Twitter e Facebook. Scopriamo perché, tra le candidate a Miss Internet, figura il suo nome.

Nessuno conosce la sua età, ma dice di sentirsi un’orgogliosa rappresentante dell’annata ’86 e noi non possiamo far altro che rispettare questa decisione. Sarinski non è una fashion blogger come Chiara Ferragni, non è un’opinionista come Selvaggia Lucarelli e certamente non è una wannabe Belen come Chiara Biasi. Ma chi è allora questa bionda senza peli sulla lingua? Sfacciata, talvolta arrogante, ma con un’incredibile propensione all’autocritica e ancor di più all’autoironia, questa donna ha fatto in modo che le sue frasi e le sue battute, diventassero tra le più condivise sul web. Sara Puccinelli potrebbe tranquillamente essere definita una “tuttologa”, ha un’opinione praticamente su tutto, ma in realtà si occupa di niente. Non è un’amante della fatica, di certo non muore dalla voglia di lavorare, metter su famiglia o darsi alle attività sportive. In una cosa però dice di essere davvero davvero brava: lo stalking sul web. Vi mostriamo una gallery per conoscerla meglio.

Photo Credits | Facebook

100 commenti

  1. In realtà di anni ne ha trentuno, basta seguire il suo blog dove a più riprese dichiara la sua età. Questi segreti di Pulcinella sono davvero buffi!

    1. INFERNO – CANTO I

      Nel mezzo del cammin di nostra vita
      mi ritrovai per una selva oscura,
      ché la diritta via era smarrita.

      Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
      esta selva selvaggia e aspra e forte
      che nel pensier rinova la paura!

      Tant’ è amara che poco è più morte;
      ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
      dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

      Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
      tant’ era pien di sonno a quel punto
      che la verace via abbandonai.

      Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
      là dove terminava quella valle
      che m’avea di paura il cor compunto,

      guardai in alto e vidi le sue spalle
      vestite già de’ raggi del pianeta
      che mena dritto altrui per ogne calle.

      Allor fu la paura un poco queta,
      che nel lago del cor m’era durata
      la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

      E come quei che con lena affannata,
      uscito fuor del pelago a la riva,
      si volge a l’acqua perigliosa e guata,

      così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
      si volse a retro a rimirar lo passo
      che non lasciò già mai persona viva.

      Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
      ripresi via per la piaggia diserta,
      sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

      Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
      una lonza leggera e presta molto,
      che di pel macolato era coverta;

      e non mi si partia dinanzi al volto,
      anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
      ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

      Temp’ era dal principio del mattino,
      e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
      ch’eran con lui quando l’amor divino

      mosse di prima quelle cose belle;
      sì ch’a bene sperar m’era cagione
      di quella fiera a la gaetta pelle

      l’ora del tempo e la dolce stagione;
      ma non sì che paura non mi desse
      la vista che m’apparve d’un leone.

      Questi parea che contra me venisse
      con la test’ alta e con rabbiosa fame,
      sì che parea che l’aere ne tremesse.

      Ed una lupa, che di tutte brame
      sembiava carca ne la sua magrezza,
      e molte genti fé già viver grame,

      questa mi porse tanto di gravezza
      con la paura ch’uscia di sua vista,
      ch’io perdei la speranza de l’altezza.

      E qual è quei che volontieri acquista,
      e giugne ’l tempo che perder lo face,
      che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

      tal mi fece la bestia sanza pace,
      che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
      mi ripigneva là dove ’l sol tace.

      Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
      dinanzi a li occhi mi si fu offerto
      chi per lungo silenzio parea fioco.

      Quando vidi costui nel gran diserto,
      «Miserere di me», gridai a lui,
      «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

      Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
      e li parenti miei furon lombardi,
      mantoani per patrïa ambedui.

      Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
      e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
      nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

      Poeta fui, e cantai di quel giusto
      figliuol d’Anchise che venne di Troia,
      poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

      Ma tu perché ritorni a tanta noia?
      perché non sali il dilettoso monte
      ch’è principio e cagion di tutta gioia?».

      «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
      che spandi di parlar sì largo fiume?»,
      rispuos’ io lui con vergognosa fronte.

      «O de li altri poeti onore e lume,
      vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
      che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

      Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
      tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
      lo bello stilo che m’ha fatto onore.

      Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
      aiutami da lei, famoso saggio,
      ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».

      «A te convien tenere altro vïaggio»,
      rispuose, poi che lagrimar mi vide,
      «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;

      ché questa bestia, per la qual tu gride,
      non lascia altrui passar per la sua via,
      ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;

      e ha natura sì malvagia e ria,
      che mai non empie la bramosa voglia,
      e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

      Molti son li animali a cui s’ammoglia,
      e più saranno ancora, infin che ’l veltro
      verrà, che la farà morir con doglia.

      Questi non ciberà terra né peltro,
      ma sapïenza, amore e virtute,
      e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

      Di quella umile Italia fia salute
      per cui morì la vergine Cammilla,
      Eurialo e Turno e Niso di ferute.

      Questi la caccerà per ogne villa,
      fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
      là onde ’nvidia prima dipartilla.

      Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno
      che tu mi segui, e io sarò tua guida,
      e trarrotti di qui per loco etterno;

      ove udirai le disperate strida,
      vedrai li antichi spiriti dolenti,
      ch’a la seconda morte ciascun grida;

      e vederai color che son contenti
      nel foco, perché speran di venire
      quando che sia a le beate genti.

      A le quai poi se tu vorrai salire,
      anima fia a ciò più di me degna:
      con lei ti lascerò nel mio partire;

      ché quello imperador che là sù regna,
      perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
      non vuol che ’n sua città per me si vegna.

      In tutte parti impera e quivi regge;
      quivi è la sua città e l’alto seggio:
      oh felice colui cu’ ivi elegge!»

      E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
      per quello Dio che tu non conoscesti,
      acciò ch’io fugga questo male e peggio,

      che tu mi meni là dov’ or dicesti,
      sì ch’io veggia la porta di san Pietro
      e color cui tu fai cotanto mesti.»

      Allor si mosse, e io li tenni dietro.

    2. INFERNO – CANTO II

      Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
      toglieva li animai che sono in terra
      da le fatiche loro; e io sol uno

      m’apparecchiava a sostener la guerra
      sì del cammino e sì de la pietate,
      che ritrarrà la mente che non erra.

      O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
      o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
      qui si parrà la tua nobilitate.

      Io cominciai: ªPoeta che mi guidi,
      guarda la mia virtù s’ell’ è possente,
      prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.

      Tu dici che di Silvïo il parente,
      corruttibile ancora, ad immortale
      secolo andò, e fu sensibilmente.

      Però, se l’avversario d’ogne male
      cortese i fu, pensando l’alto effetto
      ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale

      non pare indegno ad omo d’intelletto;
      ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
      ne l’empireo ciel per padre eletto:

      la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
      fu stabilita per lo loco santo
      u’ siede il successor del maggior Piero.

      Per quest’ andata onde li dai tu vanto,
      intese cose che furon cagione
      di sua vittoria e del papale ammanto.

      Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
      per recarne conforto a quella fede
      ch’è principio a la via di salvazione.

      Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
      Io non Enëa, io non Paulo sono;
      me degno a ciò né io né altri ’l crede.

      Per che, se del venire io m’abbandono,
      temo che la venuta non sia folle.
      Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».

      E qual è quei che disvuol ciò che volle
      e per novi pensier cangia proposta,
      sì che dal cominciar tutto si tolle,

      tal mi fec’ Ïo ’n quella oscura costa,
      perchè, pensando, consumai la ’mpresa
      che fu nel cominciar cotanto tosta.

      «S’i’ ho ben la parola tua intesa»,
      rispuose del magnanimo quell’ ombra,
      «l’anima tua è da viltade offesa;

      la qual molte fïate l’omo ingombra
      sì che d’onrata impresa lo rivolve,
      come falso veder bestia quand’ ombra.

      Da questa tema acciò che tu ti solve,
      dirotti perch’ io venni e quel ch’io ’ntesi
      nel primo punto che di te mi dolve.

      Io era tra color che son sospesi,
      e donna mi chiamò beata e bella,
      tal che di comandare io la richiesi.

      Lucevan li occhi suoi più che la stella;
      e cominciommi a dir soave e piana,
      con angelica voce, in sua favella:

      «O anima cortese mantoana,
      di cui la fama ancor nel mondo dura,
      e durerà quanto ’l mondo lontana,

      l’amico mio, e non de la ventura,
      ne la diserta piaggia è impedito
      sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;

      e temo che non sia già sì smarrito,
      ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
      per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.

      Or movi, e con la tua parola ornata
      e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
      l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.

      I’ son Beatrice che ti faccio andare;
      vegno del loco ove tornar disio;
      amor mi mosse, che mi fa parlare.

      Quando sarò dinanzi al segnor mio,
      di te mi loderò sovente a lui».
      Tacette allora, e poi comincia’ io:

      «O donna di virtù sola per cui
      l’umana spezie eccede ogne contento
      di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,

      tanto m’aggrada il tuo comandamento,
      che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
      più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.

      Ma dimmi la cagion che non ti guardi
      de lo scender qua giuso in questo centro
      de l’ampio loco ove tornar tu ardi».

      «Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
      dirotti brievemente», mi rispuose,
      «perch’ i’ non temo di venir qua entro.

      Temer si dee di sole quelle cose
      c’hanno potenza di fare altrui male;
      de l’altre no, ché non son paurose.

      I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
      che la vostra miseria non mi tange,
      né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.

      Donna è gentil nel ciel che si compiange
      di questo ’mpedimento ov’ io ti mando,
      sì che duro giudicio là sù frange.

      Questa chiese Lucia in suo dimando
      e disse:–Or ha bisogno il tuo fedele
      di te, e io a te lo raccomando—.

      Lucia, nimica di ciascun crudele,
      si mosse, e venne al loco dov’ i’ era,
      che mi sedea con l’antica Rachele.

      Disse:—Beatrice, loda di Dio vera,
      ché non soccorri quei che t’amò tanto,
      ch’uscì per te de la volgare schiera?

      Non odi tu la pieta del suo pianto,
      non vedi tu la morte che ’l combatte
      su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?—.

      Al mondo non fur mai persone ratte
      a far lor pro o a fuggir lor danno,
      com’ io, dopo cotai parole fatte,

      venni qua giù del mio beato scanno,
      fidandomi del tuo parlare onesto,
      ch’onora te e quei ch’udito l’hanno».

      Poscia che m’ebbe ragionato questo,
      li occhi lucenti lagrimando volse,
      per che mi fece del venir più presto.

      E venni a te così com’ ella volse:
      d’inanzi a quella fiera ti levai
      che del bel monte il corto andar ti tolse.

      Dunque: che è? perché, perché restai,
      perché tanta viltà nel core allette,
      perché ardire e franchezza non hai,

      poscia che tai tre donne benedette
      curan di te ne la corte del cielo,
      e ’l mio parlar tanto ben ti promette?».

      Quali fioretti dal notturno gelo
      chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
      si drizzan tutti aperti in loro stelo,

      tal mi fec’ io di mia virtude stanca,
      e tanto buono ardire al cor mi corse,
      ch’i’ cominciai come persona franca:

      «Oh pietosa colei che mi soccorse!
      e te cortese ch’ubidisti tosto
      a le vere parole che ti porse!

      Tu m’hai con disiderio il cor disposto
      sÌ al venir con le parole tue,
      ch’i’ son tornato nel primo proposto.

      Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
      tu duca, tu segnore e tu maestro».
      Così li dissi; e poi che mosso fue,

      intrai per lo cammino alto e silvestro.

    3. INFERNO – CANTO III

      «Per me si va ne la città dolente,
      per me si va ne l’etterno dolore,
      per me si va tra la perduta gente.

      Giustizia mosse il mio alto fattore;
      fecemi la divina podestate,
      la somma sapïenza e ’l primo amore.

      Dinanzi a me non fuor cose create
      se non etterne, e io etterno duro.
      Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’.

      Queste parole di colore oscuro
      vid’ ïo scritte al sommo d’una porta;
      per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».

      Ed elli a me, come persona accorta:
      «Qui si convien lasciare ogne sospetto;
      ogne viltà convien che qui sia morta.

      Noi siam venuti al loco ov’ i’ t’ho detto
      che tu vedrai le genti dolorose
      c’hanno perduto il ben de l’intelletto».

      E poi che la sua mano a la mia puose
      con lieto volto, ond’ io mi confortai,
      mi mise dentro a le segrete cose.

      Quivi sospiri, pianti e alti guai
      risonavan per l’aere sanza stelle,
      per ch’io al cominciar ne lagrimai.

      Diverse lingue, orribili favelle,
      parole di dolore, accenti d’ira,
      voci alte e fioche, e suon di man con elle

      facevano un tumulto, il qual s’aggira
      sempre in quell’ aura sanza tempo tinta,
      come la rena quando turbo spira.

      E io ch’avea d’error la testa cinta,
      dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
      e che gent’ è che par nel duol sì vinta?».

      Ed elli a me: «Questo misero modo
      tegnon l’anime triste di coloro
      che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.

      Mischiate sono a quel cattivo coro
      de li angeli che non furon ribelli
      né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

      Caccianli i ciel per non esser men belli,
      né lo profondo inferno li riceve,
      ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».

      E io: «Maestro, che è tanto greve
      a lor che lamentar li fa sÌ forte?».
      Rispuose: «Dicerolti molto breve.

      Questi non hanno speranza di morte,
      e la lor cieca vita è tanto bassa,
      che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.

      Fama di loro il mondo esser non lassa;
      misericordia e giustizia li sdegna:
      non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

      E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
      che girando correva tanto ratta,
      che d’ogne posa mi parea indegna;

      e dietro le venìa sì lunga tratta
      di gente, ch’i’ non averei creduto
      che morte tanta n’avesse disfatta.

      Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
      vidi e conobbi l’ombra di colui
      che fece per viltade il gran rifiuto.

      Incontanente intesi e certo fui
      che questa era la setta d’i cattivi,
      a Dio spiacenti e a’ nemici sui.

      Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
      erano ignudi e stimolati molto
      da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

      Elle rigavan lor di sangue il volto,
      che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
      da fastidiosi vermi era ricolto.

      E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
      vidi genti a la riva d’un gran fiume;
      per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi

      ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
      le fa di trapassar parer sì pronte,
      com’ i’ discerno per lo fioco lume».

      Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
      quando noi fermerem li nostri passi
      su la trista riviera d’Acheronte».

      Allor con li occhi vergognosi e bassi,
      temendo no ’l mio dir li fosse grave,
      infino al fiume del parlar mi trassi.

      Ed ecco verso noi venir per nave
      un vecchio, bianco per antico pelo,
      gridando: «Guai a voi, anime prave!

      Non isperate mai veder lo cielo:
      i’ vegno per menarvi a l’altra riva
      ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.

      E tu che se’ costì, anima viva,
      pàrtiti da cotesti che son morti».
      Ma poi che vide ch’io non mi partiva,

      disse: «Per altra via, per altri porti
      verrai a piaggia, non qui, per passare:
      più lieve legno convien che ti porti».

      E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
      vuolsi così colà dove si puote
      ciò che si vuole, e più non dimandare».

      Quinci fuor quete le lanose gote
      al nocchier de la livida palude,
      che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

      Ma quell’ anime, ch’eran lasse e nude,
      cangiar colore e dibattero i denti,
      ratto che ’nteser le parole crude.

      Bestemmiavano Dio e lor parenti,
      l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
      di lor semenza e di lor nascimenti.

      Poi si ritrasser tutte quante insieme,
      forte piangendo, a la riva malvagia
      ch’attende ciascun uom che Dio non teme.

      Caron dimonio, con occhi di bragia
      loro accennando, tutte le raccoglie;
      batte col remo qualunque s’adagia.

      Come d’autunno si levan le foglie
      l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
      vede a la terra tutte le sue spoglie,

      similemente il mal seme d’Adamo
      gittansi di quel lito ad una ad una,
      per cenni come augel per suo richiamo.

      CosÌ sen vanno su per l’onda bruna,
      e avanti che sien di là discese,
      anche di qua nuova schiera s’auna.

      «Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
      «quelli che muoion ne l’ira di Dio
      tutti convegnon qui d’ogne paese;

      e pronti sono a trapassar lo rio,
      ché la divina giustizia li sprona,
      sì che la tema si volve in disio.

      Quinci non passa mai anima buona;
      e però, se Caron di te si lagna,
      ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».

      Finito questo, la buia campagna
      tremò sÌ forte, che de lo spavento
      la mente di sudore ancor mi bagna.

      La terra lagrimosa diede vento,
      che balenò una luce vermiglia
      la qual mi vinse ciascun sentimento;

      e caddi come l’uom cui sonno piglia.

    4. INFERNO – CANTO IV

      Ruppemi l’alto sonno ne la testa
      un greve truono, sì ch’io mi riscossi
      come persona ch’è per forza desta;

      e l’occhio riposato intorno mossi,
      dritto levato, e fiso riguardai
      per conoscer lo loco dov’ io fossi.

      Vero è che ’n su la proda mi trovai
      de la valle d’abisso dolorosa
      che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.

      Oscura e profonda era e nebulosa
      tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
      io non vi discernea alcuna cosa.

      «Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
      cominciò il poeta tutto smorto.
      «Io sarò primo, e tu sarai secondo».

      E io, che del color mi fui accorto,
      dissi: «Come verrò, se tu paventi
      che suoli al mio dubbiare esser conforto?».

      Ed elli a me: «L’angoscia de le genti
      che son qua giù, nel viso mi dipigne
      quella pietà che tu per tema senti.

      Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
      Così si mise e così mi fé intrare
      nel primo cerchio che l’abisso cigne.

      Quivi, secondo che per ascoltare,
      non avea pianto mai che di sospiri
      che l’aura etterna facevan tremare;

      ciò avvenia di duol sanza martìri,
      ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
      d’infanti e di femmine e di viri.

      Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
      che spiriti son questi che tu vedi?
      Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,

      ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
      non basta, perché non ebber battesmo,
      ch’è porta de la fede che tu credi;

      e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
      non adorar debitamente a Dio:
      e di questi cotai son io medesmo.

      Per tai difetti, non per altro rio,
      semo perduti, e sol di tanto offesi
      che sanza speme vivemo in disio».

      Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
      però che gente di molto valore
      conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.

      «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
      comincia’ io per voler esser certo
      di quella fede che vince ogne errore:

      «uscicci mai alcuno, o per suo merto
      o per altrui, che poi fosse beato?».
      E quei che ’ntese il mio parlar coverto,

      rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
      quando ci vidi venire un possente,
      con segno di vittoria coronato.

      Trasseci l’ombra del primo parente,
      d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
      di Moïsè legista e ubidente;

      Abraàm patrïarca e Davìd re,
      Israèl con lo padre e co’ suoi nati
      e con Rachele, per cui tanto fé,

      e altri molti, e feceli beati.
      E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
      spiriti umani non eran salvati».

      Non lasciavam l’andar perch’ ei dicessi,
      ma passavam la selva tuttavia,
      la selva, dico, di spiriti spessi.

      Non era lunga ancor la nostra via
      di qua dal sonno, quand’ io vidi un foco
      ch’emisperio di tenebre vincia.

      Di lungi n’eravamo ancora un poco,
      ma non sì ch’io non discernessi in parte
      ch’orrevol gente possedea quel loco.

      «O tu ch’onori scïenzïa e arte,
      questi chi son c’hanno cotanta onranza,
      che dal modo de li altri li diparte?».

      E quelli a me: «L’onrata nominanza
      che di lor suona sù ne la tua vita,
      grazïa acquista in ciel che sì li avanza».

      Intanto voce fu per me udita:
      «Onorate l’altissimo poeta;
      l’ombra sua torna, ch’era dipartita».

      Poi che la voce fu restata e queta,
      vidi quattro grand’ ombre a noi venire:
      sembianz’ avevan né trista né lieta.

      Lo buon maestro cominciò a dire:
      «Mira colui con quella spada in mano,
      che vien dinanzi ai tre sì come sire:

      quelli è Omero poeta sovrano;
      l’altro è Orazio satiro che vene;
      Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.

      Però che ciascun meco si convene
      nel nome che sonò la voce sola,
      fannomi onore, e di ciò fanno bene».

      Così vid’ i’ adunar la bella scola
      di quel segnor de l’altissimo canto
      che sovra li altri com’ aquila vola.

      Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
      volsersi a me con salutevol cenno,
      e ’l mio maestro sorrise di tanto;

      e più d’onore ancora assai mi fenno,
      ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
      sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

      Così andammo infino a la lumera,
      parlando cose che ’l tacere è bello,
      sì com’ era ’l parlar colà dov’ era.

      Venimmo al piè d’un nobile castello,
      sette volte cerchiato d’alte mura,
      difeso intorno d’un bel fiumicello.

      Questo passammo come terra dura;
      per sette porte intrai con questi savi:
      giugnemmo in prato di fresca verdura.

      Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
      di grande autorità ne’ lor sembianti:
      parlavan rado, con voci soavi.

      Traemmoci così da l’un de’ canti,
      in loco aperto, luminoso e alto,
      sì che veder si potien tutti quanti.

      Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
      mi fuor mostrati li spiriti magni,
      che del vedere in me stesso m’essalto.

      I’ vidi Eletra con molti compagni,
      tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
      Cesare armato con li occhi grifagni.

      Vidi Cammilla e la Pantasilea;
      da l’altra parte vidi ’l re Latino
      che con Lavina sua figlia sedea.

      Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
      Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
      e solo, in parte, vidi ’l Saladino.

      Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
      vidi ’l maestro di color che sanno
      seder tra filosofica famiglia.

      Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
      quivi vid’ ïo Socrate e Platone,
      che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;

      Democrito che ’l mondo a caso pone,
      Dïogenès, Anassagora e Tale,
      Empedoclès, Eraclito e Zenone;

      e vidi il buono accoglitor del quale,
      Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
      Tulïo e Lino e Seneca morale;

      Euclide geomètra e Tolomeo,
      Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
      Averoìs, che ’l gran comento feo.

      Io non posso ritrar di tutti a pieno,
      però che sì mi caccia il lungo tema,
      che molte volte al fatto il dir vien meno.

      La sesta compagnia in due si scema:
      per altra via mi mena il savio duca,
      fuor de la queta, ne l’aura che trema.

      E vegno in parte ove non è che luca.

    5. INFERNO – CANTO V

      Così discesi del cerchio primaio
      giù nel secondo, che men loco cinghia
      e tanto più dolor, che punge a guaio.

      Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
      essamina le colpe ne l’intrata;
      giudica e manda secondo ch’avvinghia.

      Dico che quando l’anima mal nata
      li vien dinanzi, tutta si confessa;
      e quel conoscitor de le peccata

      vede qual loco d’inferno è da essa;
      cignesi con la coda tante volte
      quantunque gradi vuol che giù sia messa.

      Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
      vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
      dicono e odono e poi son giù volte.

      «O tu che vieni al doloroso ospizio»,
      disse Minòs a me quando mi vide,
      lasciando l’atto di cotanto offizio,

      «guarda com’ entri e di cui tu ti fide;
      non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
      E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?

      Non impedir lo suo fatale andare:
      vuolsi così colà dove si puote
      ciò che si vuole, e più non dimandare».

      Or incomincian le dolenti note
      a farmisi sentire; or son venuto
      là dove molto pianto mi percuote.

      Io venni in loco d’ogne luce muto,
      che mugghia come fa mar per tempesta,
      se da contrari venti è combattuto.

      La bufera infernal, che mai non resta,
      mena li spirti con la sua rapina;
      voltando e percotendo li molesta.

      Quando giungon davanti a la ruina,
      quivi le strida, il compianto, il lamento;
      bestemmian quivi la virtù divina.

      Intesi ch’a così fatto tormento
      enno dannati i peccator carnali,
      che la ragion sommettono al talento.

      E come li stornei ne portan l’ali
      nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
      così quel fiato li spiriti mali

      di qua, di là, di giù, di sù li mena;
      nulla speranza li conforta mai,
      non che di posa, ma di minor pena.

      E come i gru van cantando lor lai,
      faccendo in aere di sé lunga riga,
      così vid’ io venir, traendo guai,

      ombre portate da la detta briga;
      per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
      genti che l’aura nera sì gastiga?».

      «La prima di color di cui novelle
      tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
      «fu imperadrice di molte favelle.

      A vizio di lussuria fu sì rotta,
      che libito fé licito in sua legge,
      per tòrre il biasmo in che era condotta.

      Ell’ è Semiramìs, di cui si legge
      che succedette a Nino e fu sua sposa:
      tenne la terra che ’l Soldan corregge.

      L’altra è colei che s’ancise amorosa,
      e ruppe fede al cener di Sicheo;
      poi è Cleopatràs lussurïosa.

      Elena vedi, per cui tanto reo
      tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
      che con amore al fine combatteo.

      Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
      ombre mostrommi e nominommi a dito,
      ch’amor di nostra vita dipartille.

      Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
      nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
      pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

      I’ cominciai: «Poeta, volontieri
      parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
      e paion sì al vento esser leggeri».

      Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
      più presso a noi; e tu allor li priega
      per quello amor che i mena, ed ei verranno».

      Sì tosto come il vento a noi li piega,
      mossi la voce: «O anime affannate,
      venite a noi parlar, s’altri nol niega!».

      Quali colombe dal disio chiamate
      con l’ali alzate e ferme al dolce nido
      vegnon per l’aere, dal voler portate;

      cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,
      a noi venendo per l’aere maligno,
      sì forte fu l’affettüoso grido.

      «O animal grazïoso e benigno
      che visitando vai per l’aere perso
      noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

      se fosse amico il re de l’universo,
      noi pregheremmo lui de la tua pace,
      poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

      Di quel che udire e che parlar vi piace,
      noi udiremo e parleremo a voi,
      mentre che ’l vento, come fa, ci tace.

      Siede la terra dove nata fui
      su la marina dove ’l Po discende
      per aver pace co’ seguaci sui.

      Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
      prese costui de la bella persona
      che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

      Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
      mi prese del costui piacer sì forte,
      che, come vedi, ancor non m’abbandona.

      Amor condusse noi ad una morte.
      Caina attende chi a vita ci spense».
      Queste parole da lor ci fuor porte.

      Quand’ io intesi quell’ anime offense,
      china’ il viso, e tanto il tenni basso,
      fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».

      Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
      quanti dolci pensier, quanto disio
      menò costoro al doloroso passo!».

      Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
      e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
      a lagrimar mi fanno tristo e pio.

      Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
      a che e come concedette amore
      che conosceste i dubbiosi disiri?».

      E quella a me: «Nessun maggior dolore
      che ricordarsi del tempo felice
      ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.

      Ma s’a conoscer la prima radice
      del nostro amor tu hai cotanto affetto,
      dirò come colui che piange e dice.

      Noi leggiavamo un giorno per diletto
      di Lancialotto come amor lo strinse;
      soli eravamo e sanza alcun sospetto.

      Per più fïate li occhi ci sospinse
      quella lettura, e scolorocci il viso;
      ma solo un punto fu quel che ci vinse.

      Quando leggemmo il disïato riso
      esser basciato da cotanto amante,
      questi, che mai da me non fia diviso,

      la bocca mi basciò tutto tremante.
      Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
      quel giorno più non vi leggemmo avante».

      Mentre che l’uno spirto questo disse,
      l’altro piangëa; sì che di pietade
      io venni men così com’ io morisse.

      E caddi come corpo morto cade.

    6. INFERNO – CANTO 6

      Al tornar de la mente, che si chiuse
      dinanzi a la pietà d’i due cognati,
      che di trestizia tutto mi confuse,

      novi tormenti e novi tormentati
      mi veggio intorno, come ch’io mi mova
      e ch’io mi volga, e come che io guati.

      Io sono al terzo cerchio, de la piova
      etterna, maladetta, fredda e greve;
      regola e qualità mai non l’è nova.

      Grandine grossa, acqua tinta e neve
      per l’aere tenebroso si riversa;
      pute la terra che questo riceve.

      Cerbero, fiera crudele e diversa,
      con tre gole caninamente latra
      sovra la gente che quivi è sommersa.

      Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
      e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
      graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

      Urlar li fa la pioggia come cani;
      de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
      volgonsi spesso i miseri profani.

      Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
      le bocche aperse e mostrocci le sanne;
      non avea membro che tenesse fermo.

      E ’l duca mio distese le sue spanne,
      prese la terra, e con piene le pugna
      la gittò dentro a le bramose canne.

      Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
      e si racqueta poi che ’l pasto morde,
      ché solo a divorarlo intende e pugna,

      cotai si fecer quelle facce lorde
      de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
      l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

      Noi passavam su per l’ombre che adona
      la greve pioggia, e ponavam le piante
      sovra lor vanità che par persona.

      Elle giacean per terra tutte quante,
      fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
      ch’ella ci vide passarsi davante.

      «O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,
      mi disse, «riconoscimi, se sai:
      tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».

      E io a lui: «L’angoscia che tu hai
      forse ti tira fuor de la mia mente,
      sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.

      Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
      loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
      che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».

      Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
      d’invidia sì che già trabocca il sacco,
      seco mi tenne in la vita serena.

      Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
      per la dannosa colpa de la gola,
      come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

      E io anima trista non son sola,
      ché tutte queste a simil pena stanno
      per simil colpa». E più non fé parola.

      Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
      mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
      ma dimmi, se tu sai, a che verranno

      li cittadin de la città partita;
      s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
      per che l’ha tanta discordia assalita».

      E quelli a me: «Dopo lunga tencione
      verranno al sangue, e la parte selvaggia
      caccerà l’altra con molta offensione.

      Poi appresso convien che questa caggia
      infra tre soli, e che l’altra sormonti
      con la forza di tal che testé piaggia.

      Alte terrà lungo tempo le fronti,
      tenendo l’altra sotto gravi pesi,
      come che di ciò pianga o che n’aonti.

      Giusti son due, e non vi sono intesi;
      superbia, invidia e avarizia sono
      le tre faville c’hanno i cuori accesi».

      Qui puose fine al lagrimabil suono.
      E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni
      e che di più parlar mi facci dono.

      Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
      Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
      e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,

      dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
      ché gran disio mi stringe di savere
      se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca».

      E quelli: «Ei son tra l’anime più nere;
      diverse colpe giù li grava al fondo:
      se tanto scendi, là i potrai vedere.

      Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
      priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
      più non ti dico e più non ti rispondo».

      Li diritti occhi torse allora in biechi;
      guardommi un poco e poi chinò la testa:
      cadde con essa a par de li altri ciechi.

      E ’l duca disse a me: «Più non si desta
      di qua dal suon de l’angelica tromba,
      quando verrà la nimica podesta:

      ciascun rivederà la trista tomba,
      ripiglierà sua carne e sua figura,
      udirà quel ch’in etterno rimbomba».

      Sì trapassammo per sozza mistura
      de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
      toccando un poco la vita futura;

      per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
      crescerann’ ei dopo la gran sentenza,
      o fier minori, o saran sì cocenti?».

      Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,
      che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
      più senta il bene, e così la doglienza.

      Tutto che questa gente maladetta
      in vera perfezion già mai non vada,
      di là più che di qua essere aspetta».

      Noi aggirammo a tondo quella strada,
      parlando più assai ch’i’ non ridico;
      venimmo al punto dove si digrada:

      quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

    7. INFERNO – CANTO VII

      «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
      cominciò Pluto con la voce chioccia;
      e quel savio gentil, che tutto seppe,

      disse per confortarmi: «Non ti noccia
      la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
      non ci torrà lo scender questa roccia».

      Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
      e disse: «Taci, maladetto lupo!
      consuma dentro te con la tua rabbia.

      Non è sanza cagion l’andare al cupo:
      vuolsi ne l’alto, là dove Michele
      fé la vendetta del superbo strupo».

      Quali dal vento le gonfiate vele
      caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
      tal cadde a terra la fiera crudele.

      Così scendemmo ne la quarta lacca,
      pigliando più de la dolente ripa
      che ’l mal de l’universo tutto insacca.

      Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
      nove travaglie e pene quant’ io viddi?
      e perché nostra colpa sì ne scipa?

      Come fa l’onda là sovra Cariddi,
      che si frange con quella in cui s’intoppa,
      così convien che qui la gente riddi.

      Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,
      e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,
      voltando pesi per forza di poppa.

      Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
      si rivolgea ciascun, voltando a retro,
      gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».

      Così tornavan per lo cerchio tetro
      da ogne mano a l’opposito punto,
      gridandosi anche loro ontoso metro;

      poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,
      per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
      E io, ch’avea lo cor quasi compunto,

      dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
      che gente è questa, e se tutti fuor cherci
      questi chercuti a la sinistra nostra».

      Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
      sì de la mente in la vita primaia,
      che con misura nullo spendio ferci.

      Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
      quando vegnono a’ due punti del cerchio
      dove colpa contraria li dispaia.

      Questi fuor cherci, che non han coperchio
      piloso al capo, e papi e cardinali,
      in cui usa avarizia il suo soperchio».

      E io: «Maestro, tra questi cotali
      dovre’ io ben riconoscere alcuni
      che furo immondi di cotesti mali».

      Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
      la sconoscente vita che i fé sozzi,
      ad ogne conoscenza or li fa bruni.

      In etterno verranno a li due cozzi:
      questi resurgeranno del sepulcro
      col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

      Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
      ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
      qual ella sia, parole non ci appulcro.

      Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
      d’i ben che son commessi a la fortuna,
      per che l’umana gente si rabbuffa;

      ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
      e che già fu, di quest’ anime stanche
      non poterebbe farne posare una».

      «Maestro mio», diss’ io, «or mi dì anche:
      questa fortuna di che tu mi tocche,
      che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».

      E quelli a me: «Oh creature sciocche,
      quanta ignoranza è quella che v’offende!
      Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.

      Colui lo cui saver tutto trascende,
      fece li cieli e diè lor chi conduce
      sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,

      distribuendo igualmente la luce.
      Similemente a li splendor mondani
      ordinò general ministra e duce

      che permutasse a tempo li ben vani
      di gente in gente e d’uno in altro sangue,
      oltre la difension d’i senni umani;

      per ch’una gente impera e l’altra langue,
      seguendo lo giudicio di costei,
      che è occulto come in erba l’angue.

      Vostro saver non ha contasto a lei:
      questa provede, giudica, e persegue
      suo regno come il loro li altri dèi.

      Le sue permutazion non hanno triegue:
      necessità la fa esser veloce;
      sì spesso vien chi vicenda consegue.

      Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
      pur da color che le dovrien dar lode,
      dandole biasmo a torto e mala voce;

      ma ella s’è beata e ciò non ode:
      con l’altre prime creature lieta
      volve sua spera e beata si gode.

      Or discendiamo omai a maggior pieta;
      già ogne stella cade che saliva
      quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».

      Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
      sovr’ una fonte che bolle e riversa
      per un fossato che da lei deriva.

      L’acqua era buia assai più che persa;
      e noi, in compagnia de l’onde bige,
      intrammo giù per una via diversa.

      In la palude va c’ha nome Stige
      questo tristo ruscel, quand’ è disceso
      al piè de le maligne piagge grige.

      E io, che di mirare stava inteso,
      vidi genti fangose in quel pantano,
      ignude tutte, con sembiante offeso.

      Queste si percotean non pur con mano,
      ma con la testa e col petto e coi piedi,
      troncandosi co’ denti a brano a brano.

      Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
      l’anime di color cui vinse l’ira;
      e anche vo’ che tu per certo credi

      che sotto l’acqua è gente che sospira,
      e fanno pullular quest’ acqua al summo,
      come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.

      Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
      ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
      portando dentro accidïoso fummo:

      or ci attristiam ne la belletta negra”.
      Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
      ché dir nol posson con parola integra»».

      Così girammo de la lorda pozza
      grand’ arco tra la ripa secca e ’l mézzo,
      con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.

      Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.

    8. INFERNO – CANTO VIII

      Io dico, seguitando, ch’assai prima
      che noi fossimo al piè de l’alta torre,
      li occhi nostri n’andar suso a la cima

      per due fiammette che i vedemmo porre,
      e un’altra da lungi render cenno,
      tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.

      E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
      dissi: «Questo che dice? e che risponde
      quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».

      Ed elli a me: «Su per le sucide onde
      giï scorgere puoi quello che s’aspetta,
      se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».

      Corda non pinse mai da sé saetta
      che sì corresse via per l’aere snella,
      com’ io vidi una nave piccioletta

      venir per l’acqua verso noi in quella,
      sotto ’l governo d’un sol galeoto,
      che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».

      «Flegïïs, Flegïïs, tu gridi a vòto»,
      disse lo mio segnore, «a questa volta:
      più non ci avrai che sol passando il loto».

      Qual è colui che grande inganno ascolta
      che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
      fecesi Flegïïs ne l’ira accolta.

      Lo duca mio discese ne la barca,
      e poi mi fece intrare appresso lui;
      e sol quand’ io fui dentro parve carca.

      Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
      segando se ne va l’antica prora
      de l’acqua più che non suol con altrui.

      Mentre noi corravam la morta gora,
      dinanzi mi si fece un pien di fango,
      e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».

      E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
      ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
      Rispuose: «Vedi che son un che piango».

      E io a lui: «Con piangere e con lutto,
      spirito maladetto, ti rimani;
      ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».

      Allor distese al legno ambo le mani;
      per che ’l maestro accorto lo sospinse,
      dicendo: «Via costï con li altri cani!».

      Lo collo poi con le braccia mi cinse;
      basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa,
      benedetta colei che ’n te s’incinse!

      Quei fu al mondo persona orgogliosa;
      bontï non è che sua memoria fregi:
      così s’è l’ombra sua qui furïosa.

      Quanti si tegnon or lï sù gran regi
      che qui staranno come porci in brago,
      di sé lasciando orribili dispregi!».

      E io: «Maestro, molto sarei vago
      di vederlo attuffare in questa broda
      prima che noi uscissimo del lago».

      Ed elli a me: «Avante che la proda
      ti si lasci veder, tu sarai sazio:
      di tal disïo convien che tu goda».

      Dopo ciò poco vid’ io quello strazio
      far di costui a le fangose genti,
      che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

      Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
      e ’l fiorentino spirito bizzarro
      in sé medesmo si volvea co’ denti.

      Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
      ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
      per ch’io avante l’occhio intento sbarro.

      Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
      s’appressa la cittï c’ha nome Dite,
      coi gravi cittadin, col grande stuolo».

      E io: «Maestro, giï le sue meschite
      lï entro certe ne la valle cerno,
      vermiglie come se di foco uscite

      fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
      ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
      come tu vedi in questo basso inferno».

      Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
      che vallan quella terra sconsolata:
      le mura mi parean che ferro fosse.

      Non sanza prima far grande aggirata,
      venimmo in parte dove il nocchier forte
      «Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».

      Io vidi più di mille in su le porte
      da ciel piovuti, che stizzosamente
      dicean: «Chi è costui che sanza morte

      va per lo regno de la morta gente?».
      E ’l savio mio maestro fece segno
      di voler lor parlar segretamente.

      Allor chiusero un poco il gran disdegno
      e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
      che sì ardito intrò per questo regno.

      Sol si ritorni per la folle strada:
      pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
      che li ha’ iscorta sì buia contrada».

      Pensa, lettor, se io mi sconfortai
      nel suon de le parole maladette,
      ché non credetti ritornarci mai.

      «O caro duca mio, che più di sette
      volte m’hai sicurtï renduta e tratto
      d’alto periglio che ’ncontra mi stette,

      non mi lasciar», diss’ io, «così disfatto;
      e se ’l passar più oltre ci è negato,
      ritroviam l’orme nostre insieme ratto».

      E quel segnor che lì m’avea menato,
      mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
      non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.

      Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
      conforta e ciba di speranza buona,
      ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».

      Così sen va, e quivi m’abbandona
      lo dolce padre, e io rimagno in forse,
      che sì e no nel capo mi tenciona.

      Udir non potti quello ch’a lor porse;
      ma ei non stette lï con essi guari,
      che ciascun dentro a pruova si ricorse.

      Chiuser le porte que’ nostri avversari
      nel petto al mio segnor, che fuor rimase
      e rivolsesi a me con passi rari.

      Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
      d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
      «Chi m’ha negate le dolenti case!».

      E a me disse: «Tu, perch’ io m’adiri,
      non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
      qual ch’a la difension dentro s’aggiri.

      Questa lor tracotanza non è nova;
      ché giï l’usaro a men segreta porta,
      la qual sanza serrame ancor si trova.

      Sovr’ essa vedestù la scritta morta:
      e giï di qua da lei discende l’erta,
      passando per li cerchi sanza scorta,

      tal che per lui ne fia la terra aperta».

    9. INFERNO – CANTO IX

      Quel color che viltà di fuor mi pinse
      veggendo il duca mio tornare in volta,
      più tosto dentro il suo novo ristrinse.

      Attento si fermò com’ uom ch’ascolta;
      ché l’occhio nol potea menare a lunga
      per l’aere nero e per la nebbia folta.

      «Pur a noi converrà vincer la punga»,
      cominciò el, «se non . . . Tal ne s’offerse.
      Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».

      I’ vidi ben só com’ ei ricoperse
      lo cominciar con l’altro che poi venne,
      che fur parole a le prime diverse;

      ma nondimen paura il suo dir dienne,
      perch’ io traeva la parola tronca
      forse a peggior sentenzia che non tenne.

      «In questo fondo de la trista conca
      discende mai alcun del primo grado,
      che sol per pena ha la speranza cionca?».

      Questa question fec’ io; e quei «Di rado
      incontra», mi rispuose, «che di noi
      faccia il cammino alcun per qual io vado.

      Ver è ch’altra fïata qua giù fui,
      congiurato da quella Eritón cruda
      che richiamava l’ombre a’ corpi sui.

      Di poco era di me la carne nuda,
      ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro,
      per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

      Quell’ è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
      e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
      ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.

      Questa palude che ’l gran puzzo spira
      cigne dintorno la città dolente,
      u’ non potemo intrare omai sanz’ ira».

      E altro disse, ma non l’ho a mente;
      però che l’occhio m’avea tutto tratto
      ver’ l’alta torre a la cima rovente,

      dove in un punto furon dritte ratto
      tre furïe infernal di sangue tinte,
      che membra feminine avieno e atto,

      e con idre verdissime eran cinte;
      serpentelli e ceraste avien per crine,
      onde le fiere tempie erano avvinte.

      E quei, che ben conobbe le meschine
      de la regina de l’etterno pianto,
      «Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

      Quest’ è Megera dal sinistro canto;
      quella che piange dal destro è Aletto;
      Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.

      Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
      battiensi a palme e gridavan só alto,
      ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.

      «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
      dicevan tutte riguardando in giuso;
      «mal non vengiammo in Tesëo l’assalto».

      «Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
      ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
      nulla sarebbe di tornar mai suso».

      Così disse ’l maestro; ed elli stessi
      mi volse, e non si tenne a le mie mani,
      che con le sue ancor non mi chiudessi.

      O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
      mirate la dottrina che s’asconde
      sotto ’l velame de li versi strani.

      E già venìa su per le torbide onde
      un fracasso d’un suon, pien di spavento,
      per cui tremavano amendue le sponde,

      non altrimenti fatto che d’un vento
      impetüoso per li avversi ardori,
      che fier la selva e sanz’ alcun rattento

      li rami schianta, abbatte e porta fori;
      dinanzi polveroso va superbo,
      e fa fuggir le fiere e li pastori.

      Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
      del viso su per quella schiuma antica
      per indi ove quel fummo è più acerbo».

      Come le rane innanzi a la nimica
      biscia per l’acqua si dileguan tutte,
      fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,

      vid’ io più di mille anime distrutte
      fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
      passava Stige con le piante asciutte.

      Dal volto rimovea quell’ aere grasso,
      menando la sinistra innanzi spesso;
      e sol di quell’ angoscia parea lasso.

      Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
      e volsimi al maestro; e quei fé segno
      ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.

      Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
      Venne a la porta e con una verghetta
      l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

      «O cacciati del ciel, gente dispetta»,
      cominciò elli in su l’orribil soglia,
      «ond’ esta oltracotanza in voi s’alletta?

      Perché recalcitrate a quella voglia
      a cui non puote il fin mai esser mozzo,
      e che più volte v’ha cresciuta doglia?

      Che giova ne le fata dar di cozzo?
      Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
      ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».

      Poi si rivolse per la strada lorda,
      e non fé motto a noi, ma fé sembiante
      d’omo cui altra cura stringa e morda

      che quella di colui che li è davante;
      e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
      sicuri appresso le parole sante.

      Dentro li ’ntrammo sanz’ alcuna guerra;
      e io, ch’avea di riguardar disio
      la condizion che tal fortezza serra,

      com’ io fui dentro, l’occhio intorno invio:
      e veggio ad ogne man grande campagna,
      piena di duolo e di tormento rio.

      Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
      sì com’ a Pola, presso del Carnaro
      ch’Italia chiude e suoi termini bagna,

      fanno i sepulcri tutt’ il loco varo,
      così facevan quivi d’ogne parte,
      salvo che ’l modo v’era più amaro;

      ché tra li avelli fiamme erano sparte,
      per le quali eran sì del tutto accesi,
      che ferro più non chiede verun’ arte.

      Tutti li lor coperchi eran sospesi,
      e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
      che ben parean di miseri e d’offesi.

      E io: «Maestro, quai son quelle genti
      che, seppellite dentro da quell’ arche,
      si fan sentir coi sospiri dolenti?».

      E quelli a me: «Qui son li eresïarche
      con lor seguaci, d’ogne setta, e molto
      più che non credi son le tombe carche.

      Simile qui con simile è sepolto,
      e i monimenti son più e men caldi».
      E poi ch’a la man destra si fu vòlto,

      passammo tra i martìri e li alti spaldi.

    10. INFERNO – CANTO X

      Ora sen va per un secreto calle,
      tra ’l muro de la terra e li martùri,
      lo mio maestro, e io dopo le spalle.

      «O virtù somma, che per li empi giri
      mi volvi«, cominciai, «com’ a te piace,
      parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.

      La gente che per li sepolcri giace
      potrebbesi veder? già son levati
      tutt’ i coperchi, e nessun guardia face«.

      E quelli a me: «Tutti saran serrati
      quando di Iosafàt qui torneranno
      coi corpi che là sù hanno lasciati.

      Suo cimitero da questa parte hanno
      con Epicuro tutti suoi seguaci,
      che l’anima col corpo morta fanno.

      Però a la dimanda che mi faci
      quinc’ entro satisfatto sarà tosto,
      e al disio ancor che tu mi taci«.

      E io: «Buon duca, non tegno riposto
      a te mio cuor se non per dicer poco,
      e tu m’hai non pur mo a ciò disposto«.

      «O Tosco che per la città del foco
      vivo ten vai cosù parlando onesto,
      piacciati di restare in questo loco.

      La tua loquela ti fa manifesto
      di quella nobil patrïa natio,
      a la qual forse fui troppo molesto«.

      Subitamente questo suono uscùo
      d’una de l’arche; però m’accostai,
      temendo, un poco più al duca mio.

      Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
      Vedi là Farinata che s’è dritto:
      da la cintola in sù tutto ’l vedrai«.

      Io avea già il mio viso nel suo fitto;
      ed el s’ergea col petto e con la fronte
      com’ avesse l’inferno a gran dispitto.

      E l’animose man del duca e pronte
      mi pinser tra le sepulture a lui,
      dicendo: «Le parole tue sien conte«.

      Com’ io al piè de la sua tomba fui,
      guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
      mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?«.

      Io ch’era d’ubidir disideroso,
      non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi;
      ond’ ei levò le ciglia un poco in suso;

      poi disse: «Fieramente furo avversi
      a me e a miei primi e a mia parte,
      sù che per due fïate li dispersi«.

      «S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte«,
      rispuos’ io lui, «l’una e l’altra fïata;
      ma i vostri non appreser ben quell’ arte«.

      Allor surse a la vista scoperchiata
      un’ombra, lungo questa, infino al mento:
      credo che s’era in ginocchie levata.

      Dintorno mi guardò, come talento
      avesse di veder s’altri era meco;
      e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,

      piangendo disse: «Se per questo cieco
      carcere vai per altezza d’ingegno,
      mio figlio ov’ è? e perché non è teco?«.

      E io a lui: «Da me stesso non vegno:
      colui ch’attende là, per qui mi mena
      forse cui Guido vostro ebbe a disdegno«.

      Le sue parole e ’l modo de la pena
      m’avean di costui già letto il nome;
      però fu la risposta cosù piena.

      Di sùbito drizzato gridò: «Come?
      dicesti “elli ebbe“? non viv’ elli ancora?
      non fiere li occhi suoi lo dolce lume?«.

      Quando s’accorse d’alcuna dimora
      ch’io facëa dinanzi a la risposta,
      supin ricadde e più non parve fora.

      Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
      restato m’era, non mutò aspetto,
      né mosse collo, né piegò sua costa;

      e sé continüando al primo detto,
      «S’elli han quell’ arte«, disse, «male appresa,
      ciò mi tormenta più che questo letto.

      Ma non cinquanta volte fia raccesa
      la faccia de la donna che qui regge,
      che tu saprai quanto quell’ arte pesa.

      E se tu mai nel dolce mondo regge,
      dimmi: perché quel popolo è sù empio
      incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?«.

      Ond’ io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
      che fece l’Arbia colorata in rosso,
      tal orazion fa far nel nostro tempio«.

      Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
      «A ciò non fu’ io sol«, disse, «né certo
      sanza cagion con li altri sarei mosso.

      Ma fu’ io solo, là dove sofferto
      fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
      colui che la difesi a viso aperto«.

      «Deh, se riposi mai vostra semenza«,
      prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
      che qui ha ’nviluppata mia sentenza.

      El par che voi veggiate, se ben odo,
      dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
      e nel presente tenete altro modo«.

      «Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
      le cose«, disse, «che ne son lontano;
      cotanto ancor ne splende il sommo duce.

      Quando s’appressano o son, tutto è vano
      nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
      nulla sapem di vostro stato umano.

      Però comprender puoi che tutta morta
      fia nostra conoscenza da quel punto
      che del futuro fia chiusa la porta«.

      Allor, come di mia colpa compunto,
      dissi: «Or direte dunque a quel caduto
      che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;

      e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
      fate i saper che ’l fei perché pensava
      già ne l’error che m’avete soluto«.

      E già ’l maestro mio mi richiamava;
      per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
      che mi dicesse chi con lu’ istava.

      Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
      qua dentro è ’l secondo Federico
      e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio«.

      Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
      poeta volsi i passi, ripensando
      a quel parlar che mi parea nemico.

      Elli si mosse; e poi, cosù andando,
      mi disse: «Perché se’ tu sù smarrito?«.
      E io li sodisfeci al suo dimando.

      «La mente tua conservi quel ch’udito
      hai contra te«, mi comandò quel saggio;
      «e ora attendi qui«, e drizzò ’l dito:

      «quando sarai dinanzi al dolce raggio
      di quella il cui bell’ occhio tutto vede,
      da lei saprai di tua vita il vïaggio«.

      Appresso mosse a man sinistra il piede:
      lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
      per un sentier ch’a una valle fiede,

      che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

    1. @Giulia: Giulia postaci la foto, vogliamo vedere la tua bellissima faccia.. Sono sicuro che sarai una top model… Hahahahahahaha

  2. BABBABIA ha detto:

    In realtà di anni ne ha trentuno, basta seguire il suo blog dove a più riprese dichiara la sua età. Questi segreti di Pulcinella sono davvero buffi!

    BABBABIA ha detto:

    In realtà di anni ne ha trentuno, basta seguire il suo blog dove a più riprese dichiara la sua età. Questi segreti di Pulcinella sono davvero buffi!

    BABBABIA ha detto:

    In realtà di anni ne ha trentuno, basta seguire il suo blog dove a più riprese dichiara la sua età. Questi segreti di Pulcinella sono davvero buffi!

    BABBABIA ha detto:

    In realtà di anni ne ha trentuno, basta seguire il suo blog dove a più riprese dichiara la sua età. Questi segreti di Pulcinella sono davvero buffi!

  3. 31anni? secondo me avrà qualche anno di più… inoltre spiando anzi “stalkando” il suo profilo ha dei gusti pessimi in fatto di abbigliamento…e poi fa quasi tenerezza messa li ossessionata dal peso a fotografarsi le gambe… Non ha un minimo di originalità!per niente! pollice in giù, decisamente!

    1. @maia: Maia invece è la designer di Giulia.. Fashion designer di fama internazionale, Maia gira con la super ricercata top model Giulia per tutte le sfilate di moda del mondo a sfoggiare i suoi abiti di alta fattura.. Rumors affermano che Maia stia lavorando all’acquisizione del marchio Gucci, caduto secondo lei in “insopportabile degrado”..

    2. @Sarinski: Zitta tu, e va a lavurà.. Che a 40 anni con tre figli non è mica possibile che tu non faccia ancora un cazzo dalla mattina alla sera.. Segui un consiglio, manda un curriculum a Roby, che magari lo gira a Warren o Bill e ti si trova qualcosina da fare..

    1. @Sarinski: se si drogasse sarebbe almeno giustificata a vestirsi così male e farsi le foto da bimba minchia

    2. @Sarinski: se si drogasse almeno sarebbe giustificata a vestirsi così male e a spararsi le pose da bimbaminkia

    1. @Roby: Roby è invece il manager di grande successo che gestisce l’impero economico di Giulia e Maia.. Vecchio lupo di mare della finanza, sembra abbia investito i sui primi risparmi in borsa a soli 6 mesi di età.. La si può trovare spesso a cena con Warren Buffett a NYC o occasionalmente con Bill Gates in occasione delle sfilate di moda di Maia e Giulia..

  4. Roby ha detto:

    Che cessa! Ma cosa doveva vincere??? Miss Internet? MA X PIACERE!!! piuttosto che vada a lavorare … mi sembra una fallitta!!!

    Roby ha detto:

    Che cessa! Ma cosa doveva vincere??? Miss Internet? MA X PIACERE!!! piuttosto che vada a lavorare … mi sembra una fallitta!!!

    Davvero! Che poi se si mettesse un bel sacchetto in testa … sarebbe meglio! Almeno non si vedono gli occhi da pesce lesso e le occhiaie profonde! Il fatto è che si crede anche bella! Fatti una bella plastica al viso e poi ne riparliamo!

    1. @BEA: Bea… Beh… Che si può dire di lei… Tenera vecchietta con l’ossessione del pesce, vive segregata in casa traumatizzata fin da piccola dai bambini che la chiamavano “Triglia rinsecchita” prendendola in giro per le sue leggendarie occhiaie.. Da allora cerca ad ogni occasione di dare contro agli altri per restituire al mondo tutta la cattiveria che le ha riversato addosso.. Ah, nel tempo libero tenta di raggranellare qualche centesimo vendendo sacchetti e cibo per piccioni (da lì il suggerimento di metterle un sacchetto in testa).. Qualcuno la aiuti..

  5. Mah niente di speciale, troppo vecchia per fotografarsi in ascensore, per niente ironica e tanto maleducata. Fa ridere solo perché è ridicola

  6. non ti chiedi come mai non hai ricevuto neanche un commento positivo qui? leggevo poco fa che ti sei inventata il sarinskinesimo ..eheh ti stolko pure io… ( a proposito.. ti invito a non usare questo termine per fare pura autoironia sul fatto che non ti cagano.. sai che cosa c’è dietro questo reato vero?? ).. Non credi sia magari il caso di crescere un pò? di scendere dal piedistallo di carta dove altri 4 sfigati hanno contribuito a farti salire e rendere le tue pagine più divertenti? Ancora ti ho davanti quando per pure caso ti ho visto in tv su quel programma che manco mi ricordo il nome…. PENOSA, impacciata e vestita malissimo!!

    1. @vale: Ma che noia sto commento… Almeno le altre sono un po’ creative.. Vale dev’essere una filosofa!! Sono sicuro!!

  7. Ma che massa di frustrati.. Almeno a lei se la caga qualcuno.. Sarei curioso di vedere quanto siete belli voi e cosa combinate nella vita per perder tempo con sti commenti.. RIDICOLIIIII

    1. Per quanto ne sappiamo potresti essere quella cogliona di sarinski! E poi, a chi piacerebbe arrivare a 30anni, senza soldi, vivendo con i genitori,senza nessuna prospettiva di carriera e pure cesso? Mah!

    2. @Sara: Per quel che ne so io, tu potresti anche aver concluso qualcosa nella vita… Haha.. E sull’essere Sarinschi, a giudicare dalle foto e dal testo penso che se volesse mandarti a cagare lo farebbe direttamente dal suo profilo, non certo da quello di un povero pirla come me..

    1. @Sara: Beh, a perder il tempo a rispondere a commenti di gente di cotanto spessore come voi, non avrei altra definizione se non PIRLA.. Me lo dico da solo!! Ma siete così divertenti che non resisto.. Hahahahaha

      PS: Non ho ancora avuto il piacere di vedere la foto della tua straordinaria bellezza.. Postalaaaa

    2. @Similar: sarai sicuramente un gran figo visti i tuoi brillanti commenti! Wow ma non sarai mica l’amante segreto della sarasarinski?
      ergo… scemo&piùscema!

    3. @maia: Eccola la designer!!! Grandeee… In che città del mondo ti trovi!? Parigi? NYC? Hong Kong? Dai, mettici la faccia anche tu, e vediamo da quale piedistallo arrivano i vostri giudizi.. Su, su… TRISTEZZAAAAA

    4. @Similar: Comunque su una cosa ti do ragione.. Sono decisamente scemo a star qui a rispondere a cinque galline tutto sto tempo.. Beh, buon ritorno nel vostro anonimato tesorini miei.. NON VI SI CAGA PIU’ NESSUNOOOO… Ciaooooooo

    5. Qua dentro ci sono più commenti negativi che positivi (da parte di persone diverse), ciò fa pensare, caro Similar, che la tua è una causa persa. Lei è e sará una sfigata/cesso/antipatica come un dito in culo, sempre e comunque

    6. @T.: @Similar: bisogna per forza vivere a new york, parigi, nella vita per esprimere un giudizio? Da quando? Ripigliati.

    7. @Similar: Ma chi minchia ti si fila a te sfigato di merda? Torna nel tuo buco e restaci per sempre che qui nessuno ti ha invitato

  8. Devo ammettere che la trovo divertente, anche se inutile. Non so quanto sia sincera la sua autoironia… – Ah, complimenti agli utenti che capiscono da un singolo commento se chi posta è bello o brutto. Wow, che superpotere eccezionale ha certa gente, che culo.

    1. @Giulia: È un nome femminile inglese, esiste, basta cercare su una cosa chiamata Google. Prova anche tu, è magia!

    2. @Tallia: Che poi dico io. Se sei in Italia, cosa diavolo ti fai chiamare con un nome inglese? Sei come quel cretino di Similar, che si sente bello a vivere a Parigi o dove cazzo vive

  9. Io sono quella che ha scatenato il putiferio. A volte la trovo brillante. Peccato che ha delle cadute di stile agghiaccianti tipo questa riferita alla sua età: “Per questo li confondo, mi piace vederli impazzire come topi in gabbia. Grazie :***”.
    Boh, hai poco da confondere, basta aver letto il tuo blog.
    Forse è la mandria di patetici seguaci su twitter ad essere confusa. Quelli che ti seguivano ai tempi d’oro sanno esattamente quanti anni hai cara Sara, e sinceramente non vedo perché nasconderli, fisicamente te li porti anche bene.
    Io credo che gli haters si divertano a stuzzicarti per vederti impazzire, proprio come hai fatto oggi, anche se, che cucciola, provi a dire che ti fanno divertire. Loro non ce la mettono la faccia, tu sì, e quindi è ovvio che sei tu a rimanerci sotto. Buona serata a te e alla tua neonata Crew!

    1. @Laura: ciao Laura, sono l’autrice del post. Aggiungo un commento solamente per sottolineare che la storia del 1986 è assolutamente ironica e ricalca una bio letta tempo fa sul blog di Sarinski nel quale diceva di sentirsi spiritualmente nata in quell’anno. Nessuno mette in dubbio la sua vera età ed ovviamente prima di scrivere un post ci informiamo. Mi dispiace che non sia stata la colta la vena sarcastica, utilizzata per la descrizione di tutte le candidate a Miss Internet 2013 e non solo per Sarinski.
      Ti auguro una buona giornata e spero che il chiarimento sia stato utile.

  10. Ha dei seri problemi, viene seguita perché ridicola. Il guaio e che lei si sente veramente star, il ragazzo la lasciata perché esasperato. E’ da compatire, è imbarazzante. Molte delle sue “fidate” amiche (quella di bologna in primis) la perculano senza pietà e lei nemmeno se ne accorge. Nominategli Laisa e vedete che iena che diventa.

    1. @Monica: Aaaaaaaah…….. Laisa no……. Laisa no…….. Sono una iena!! Sono una iena…… Aaaaaaah……..

      MA CHI CAZZO E’ LAILA?

    1. @Monica: Sarinski ora ti fingi anche me? flame a 31 anni? CURATI TESORO, CURATI, ti credi divertente MA NON LO SEI. NON FAI RIDERE. FAI PENA E TANTA COMPASSIONE. hai 31 anni tesoro, CRESCI!!

    2. @maia: Non ritratto nulla Maia, similar o come cazzo ti fai chiamare FATTI CURARE. HAI PROBLEMI. I numeri ip non mentono tesoro, sei sempre tu Sarinki la DISADATTATA

  11. Questa cretina di sarinski risponde alle critiche cambiando nome oppure usando quello delle altre….. Wow davvero una grande! Arrivare a 30 anni ed essere così rincoglionita!

    1. @Sarinski: Oppure sono io che mi fingo Sarinski. Mah, chissà. Misteri di internet. Comunque nel dubbio: Sarinski, fottiti stronza maledetta!

  12. Questa cretina di sarinski risponde alle critiche cambiando nome oppure usando quello delle altre….. Wow davvero una grande! Arrivare a 30 anni ed essere così rimbambita!

    1. @Sara: Davvero, che sfigata di merda!! Secondo me è lei che continua a scrivere sotto falsi nomi!!!

  13. E’ sicuramente Sarinski, quella stronza con i numeri ip mischia le carte, non si capisce più nulla!! Rinfrescati la cache la prossima volta Similar! Sei uno sfigato.

  14. Lo so sono una trentenne sfigata, non altro nella vita, le altre sono più belle ed intelligenti, non mi resta che esprimere la mia rabbia con tweets patetici e farli passare per ironia. Che ci volete fare? Ho 35anni e nessuno mi scopa perché mi trova la classica rompi cogliona di turno! Se mi comperassi un gatto, manco quello mi vorrebbe! Per non parlare di quanto cesso sono! Devo tirarmi i capelli e mettermeli in faccia per coprire rughe ed occhiaie, neanche Photoshop è capace di sistemami

    1. @The Puppeteer: UN DUBBIO MI ASSALE.. MA NON E’ CHE LA STESSA PERSONA SI INSULTA E SI LODA IN CONTINUAZIONE? DA MATTI

  15. cMQ VOLEVO DIRE UNA COSA…IERI HO SCRITTO 2 3 COMMENTI A NOME MIO. OGGI ACCEDODIN NUOVO A QUESTA PAGINA E TROVO COMMENTI A NOME DI “MAIA”..DOVE QUESTA O QUESTO USA PERALTRO UN LINGUAGGIO VOLGARE E BASSO…. CHE SERIETà… COME DEL RESTO MISS RINCOGLIONITA INTERNET OCHE E GALLINE ANDATE A LAVORARE INVECE DI ESSERE IL COPIA INCOLLA VIRTUALE DI UNA VELINA DA 4 SOLDI E 1000 BOTTE…

    1. @MAia: cMQ VOLEVO DIRE UNA COSA… QUESTA O QUESTO USA PERALTRO UN LINGUAGGIO VOLGARE E BASSO (NON COME ME CHE SCRIVO RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA, RINCOGLIONITA A TUTTO ANDARE – SCUSATE MI SI E’ IMBALLATO IL DISCO SUL MIO FINISSIMO LINGUAGGIO)…. CHE SERIETà… MISS RINCOGLIONITA INTERNET OCHE E GALLINE ANDATE A LAVORARE (COME FACCIO IO BUTTANDO IL MIO TEMPO A SCRIVERE STRONZATE QUI TUTTI I GIORNI)

    2. @Maia: OHHHH!!!. SEI TROPPO FIIIGA!..MI SONO ADEGUATA A TE CHE USI IL MIO STESSO NOME E CHE TRISTEZZA STO COMMENTO COME SEI TRISTE TU.

  16. Chi è questa candidata? Mai sentita … sono andata a sbirciare il suo blog, ma non sarà mica una fashion blogger??? Come cavolo si veste? Mi sembra un manichino! Ma poi quanto è brutta? Magra è magra … ma ha la faccia un po’ bruttarella poverina … non so dove crede di arrivare, ma secondo me non va proprio da nessuna parte!

    1. @Lauri:

      Nel mezzo del cammin di nostra vita
      mi ritrovai per una selva oscura,
      ché la diritta via era smarrita.

      Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
      esta selva selvaggia e aspra e forte
      che nel pensier rinova la paura!

      Tant’ è amara che poco è più morte;
      ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
      dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

      Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
      tant’ era pien di sonno a quel punto
      che la verace via abbandonai.

      Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
      là dove terminava quella valle
      che m’avea di paura il cor compunto,

      guardai in alto e vidi le sue spalle
      vestite già de’ raggi del pianeta
      che mena dritto altrui per ogne calle.

      Allor fu la paura un poco queta,
      che nel lago del cor m’era durata
      la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

      E come quei che con lena affannata,
      uscito fuor del pelago a la riva,
      si volge a l’acqua perigliosa e guata,

      così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
      si volse a retro a rimirar lo passo
      che non lasciò già mai persona viva.

      Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
      ripresi via per la piaggia diserta,
      sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

      Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
      una lonza leggera e presta molto,
      che di pel macolato era coverta;

      e non mi si partia dinanzi al volto,
      anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
      ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

      Temp’ era dal principio del mattino,
      e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
      ch’eran con lui quando l’amor divino

      mosse di prima quelle cose belle;
      sì ch’a bene sperar m’era cagione
      di quella fiera a la gaetta pelle

      l’ora del tempo e la dolce stagione;
      ma non sì che paura non mi desse
      la vista che m’apparve d’un leone.

      Questi parea che contra me venisse
      con la test’ alta e con rabbiosa fame,
      sì che parea che l’aere ne tremesse.

      Ed una lupa, che di tutte brame
      sembiava carca ne la sua magrezza,
      e molte genti fé già viver grame,

      questa mi porse tanto di gravezza
      con la paura ch’uscia di sua vista,
      ch’io perdei la speranza de l’altezza.

      E qual è quei che volontieri acquista,
      e giugne ’l tempo che perder lo face,
      che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

      tal mi fece la bestia sanza pace,
      che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
      mi ripigneva là dove ’l sol tace.

      Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
      dinanzi a li occhi mi si fu offerto
      chi per lungo silenzio parea fioco.

      Quando vidi costui nel gran diserto,
      «Miserere di me», gridai a lui,
      «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

      Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
      e li parenti miei furon lombardi,
      mantoani per patrïa ambedui.

      Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
      e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
      nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

      Poeta fui, e cantai di quel giusto
      figliuol d’Anchise che venne di Troia,
      poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

      Ma tu perché ritorni a tanta noia?
      perché non sali il dilettoso monte
      ch’è principio e cagion di tutta gioia?».

      «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
      che spandi di parlar sì largo fiume?»,
      rispuos’ io lui con vergognosa fronte.

      «O de li altri poeti onore e lume,
      vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
      che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

      Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
      tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
      lo bello stilo che m’ha fatto onore.

      Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
      aiutami da lei, famoso saggio,
      ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».

      «A te convien tenere altro vïaggio»,
      rispuose, poi che lagrimar mi vide,
      «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;

      ché questa bestia, per la qual tu gride,
      non lascia altrui passar per la sua via,
      ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;

      e ha natura sì malvagia e ria,
      che mai non empie la bramosa voglia,
      e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

      Molti son li animali a cui s’ammoglia,
      e più saranno ancora, infin che ’l veltro
      verrà, che la farà morir con doglia.

      Questi non ciberà terra né peltro,
      ma sapïenza, amore e virtute,
      e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

      Di quella umile Italia fia salute
      per cui morì la vergine Cammilla,
      Eurialo e Turno e Niso di ferute.

      Questi la caccerà per ogne villa,
      fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
      là onde ’nvidia prima dipartilla.

      Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno
      che tu mi segui, e io sarò tua guida,
      e trarrotti di qui per loco etterno;

      ove udirai le disperate strida,
      vedrai li antichi spiriti dolenti,
      ch’a la seconda morte ciascun grida;

      e vederai color che son contenti
      nel foco, perché speran di venire
      quando che sia a le beate genti.

      A le quai poi se tu vorrai salire,
      anima fia a ciò più di me degna:
      con lei ti lascerò nel mio partire;

      ché quello imperador che là sù regna,
      perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
      non vuol che ’n sua città per me si vegna.

      In tutte parti impera e quivi regge;
      quivi è la sua città e l’alto seggio:
      oh felice colui cu’ ivi elegge!»

      E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
      per quello Dio che tu non conoscesti,
      acciò ch’io fugga questo male e peggio,

      che tu mi meni là dov’ or dicesti,
      sì ch’io veggia la porta di san Pietro
      e color cui tu fai cotanto mesti.»

      Allor si mosse, e io li tenni dietro.

  17. Leggendo il suo profilo non posso che dire … ma poveraccia!!! Una povera sfigata illusa di fare chissà che cosa! Cresci e vai a fare qualcosa di serio!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *